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Gediminas e Nomeda Urbonas, dal MIT a Venezia: «Studiare la palude ci aiuta a pensare la svolta post-umana»

By 6 Giugno 2019 No Comments

Gediminas Urbonas è un artista, educatore e curatore lituano, e ha fondato, insieme alla moglie Nomeda Urbonas, lo Studio Urbonas. Insegna al MIT, Massachussets Institute of Technology, dove è stato anche Direttore del MIT Program in Art, Culture and Technology. Lo scorso anno, con Studio Urbonas, ha curato lo Swamp Pavilion per la partecipazione nazionale della Lituania alla Biennale di Architettura di Venezia e sta tuttora lavorando alla Swamp School, un’occasione per riflettere sul significato di vivere comune nella società moderna attraverso un laboratorio aperto e partecipato. Gediminas Urbonas è tra i borsisti di rientro individuati per il progetto AltroVE dalla responsabile scientifica Angela Vettese (Iuav, Venezia) e da Cescot Veneto (capofila di progetto), con l’obiettivo di promuovere interventi di innovazione sociale ed economica e la collaborazione tra professionalità differenti sul territorio lagunare.

In questa intervista Gediminas Urbonas (borsista di rientro progetto AltroVE) e Nomeda Urbonas (studio Urbonas) rispondono alle nostre domande.

Nomeda & Gediminas Urbonas. Photo by Berta Tilmantaite (2017)

Nomeda & Gediminas Urbonas. Photo by Berta Tilmantaite (2017)

Insieme ad Ann Lui e Lucas Freeman avete curato il volume “Public Space? Lost and Found”, in cui approfondite i concetti di partecipazione e mobilitazione dal basso con il fine di creare condizioni di vita comunitaria nello spazio pubblico. In che modo il concetto di “spazio sociale” può diventare uno strumento necessario per resistere al processo di privatizzazione, alla dispersione dell’individuo o alla fluidità della nostra società?

L’interpretazione dello spazio pubblico e sociale riunisce i popoli e di conseguenza garantisce il benessere e il sostentamento della città; è il motivo principale che spinge gli individui a spostarsi e vivere collettivamente nell’urbano. L’arte critica ha la capacità di aprire conflitti creativi nello spazio cittadino producendo momenti di incontro sociale e aprendo l’immaginazione.

L’impegno politico e sociale dell’arte catalizza infatti la produzione degli spazi pubblici, contribuisce alla definizione di soggettività collettive che aiutano a preservare la specificità e peculiarità del luogo e garantisce la resistenza all’omologazione tipica del capitale globale. I processi partecipativi e le pratiche di immaginazione collettiva nelle città contribuiscono al benessere dei cittadini e incoraggiano lo sviluppo di un senso di dignità, appartenenza, responsabilità e proprietà del luogo. Infine, le città con una vita sociale, culturale e pubblica attiva, non sono solo più attrattive per coloro che le vivono ma lo diventano per gli altri, in qualità di ospiti, visitatori e turisti.

La città di Venezia con la sua area lagunare è uno dei punti cardine della vostra ricerca interdisciplinare in quanto luogo privilegiato per lo studio delle pratiche di innovazione sociale, per i suoi movimenti e per la costruzione di progetti condivisi capaci di definire un futuro per questo fragile arcipelago. Come state affrontando la ricerca e che tipo di pratiche di innovazione sociale pensate di attivare?

The Swamp School ha inaugurato le sue pratiche nel 2018, nella cornice della scorsa Esposizione di Architettura di Venezia e a partire da alcune domande. Come può la palude nutrire il nostro pensiero? In che modo le zone umide stimolano la nostra immaginazione repressa? Come potrebbero diventare beneficio dell’architettura, dato che ogni costruzione inizia dalla bonifica? Come sappiamo Venezia stessa ha un passato paludoso e un futuro incerto. I suoi primi abitanti si spostarono dalla terraferma alle paludi vicine trovando rifugio su isole sabbiose. La “città galleggiante” è stata costruita su solide fondamenta di pali in legno e piattaforme che stabilizzassero i movimenti delle zone umide. Tuttavia, la zona paludosa non ha smesso di esistere, l’uomo le ha solo costruito la città internamente inserendo le sue strutture nell’acqua.

In effetti, le paludi sono sempre state più grandi di noi. Ognuna di loro sviluppa interazioni di differenti sistemi, combinando forze eterogenee e molteplici strati in biosistemi complessi che agiscono come un cervello in grado di superare i limiti corporei predefiniti e capace di infiltrarsi nei nostri ambienti vitali. Inizieremo a capirle solo una volta che impareremo da loro. Il nostro impegno tecnologico, basato sul flusso di informazioni veicolate dalle reti digitali, potrebbe infatti prendere ispirazione dalla struttura organizzativa della palude che – ricordando un sogno cibernetico di Stafford Beer – descrive un sistema vitale organizzato al punto da soddisfare le diverse esigenze di sopravvivenza in un ambiente in continua evoluzione.

Stiamo testando un modello sociale ed economico che propone l’aiuto di una pedagogia alternativa e radicale attraverso cui cambiare abitudini, pensieri e magari sviluppare nuove modalità di cittadinanza – dal momento in cui quella ambientale è a rischio.

Credit: The Swamp School. Hybrid Radio by Nicole L’Huillier. Photo by Gabriele Urbonaite

Swamp School è un’infrastruttura aperta e in continua evoluzione che supporta esperimenti collaborativi nell’ambito del design, della pedagogia e dell’intelligenza artistica con lo scopo di apprendere e adattarsi alle imminenti incognite.
La palude ci offre l’opportunità di mettere in pratica l’idea di sympoiesis (“simbio-poetica”) – produrre e crescere assieme con lo scopo di trovare nuove etiche della coesistenza –. Attraverso una serie di esperimenti ibridi con i partecipanti alla scuola si sviluppano infatti una serie di interfacce tecnologiche che ci permettono di percepire l’ambiente secondo direzioni espanse, di approfondire gli intricati sistemi della “natura” e di giocare con la nozione di “agire” umano e non-umano, costretti tra una dimensione storica e possibili scenari futuri.

La palude è uno strumento concettuale per sottolineare la nostra intrinseca ibridità, che trascende l’umano come organismo ermetico e ci spinge a ri-immaginare le nostre relazioni e i nostri potenziali confronti all’interno della svolta post-umana. Uno spazio problematico diventa così un modello perfetto per riflettere su divisioni complesse, per considerare le possibilità di riorganizzare il nostro rapporto con il mondo magari lontano dall’Antropocene.

Ad esempio consideriamo la palude come un’”interfaccia”: essa non è solo un ecosistema biologico, ma una zona da scoprire, sentire, pensare, immaginare per rinnovare i nostri rapporti con le diverse energie di questo mondo. È una tra tante ma anche una modalità peculiare: “un’interfaccia di Gaia”, facendo riferimento a James Lovelock, Lynn Margulis, Isabelle Stengers, Bruno Latour e altri interpreti dell’“ipotesi Gaia”. Da questo punto di vista il concetto di immaginario diventa davvero importante. L’immaginazione della palude costituisce un’inter-faccia, riferendoci al suo significato quasi etimologicamente: essa offre una “faccia”, cioè una certa fisionomia, alla rete di relazioni senza volto, e allo stesso tempo ci invita a impegnarci in un regime di “inter-” o “intra-relazione”. Cioè la palude è in primo luogo un ambiente senza volto ma descrive un contesto di mediazione e impegno. È un’esperienza concreta di pluralità e alterità.

Credit: The Swamp School. Imaginary pavilion. Photo by Norbert Tukaj

Credit: The Swamp School. Imaginary pavilion. Photo by Norbert Tukaj

La nostra ricerca di concentra sul tema della “simbio-poetica” attraverso l’applicazione di metodi di ricerca e discipline differenti, dalla biologia evolutiva e sintetica alla filosofia, neuroscienza, antropologia, sicurezza informatica e design. Lo scopo è quello di studiare l’assunto secondo cui le metafore e le applicazioni del modello cibernetico sono diventate meno produttive di una volta, e inoltre lavorare per una facilitazione di nuove e alternative “abitudini di pensiero” che crediamo possano servire meglio la nostra attuale condizione.

Il progetto riunirà studiosi, artisti, scienziati, ingegneri, critici e altri pensatori con l’obiettivo di sondare l’utilità del concetto di “simbio-poetica” come buona pratica per affrontare il periodo di crisi ambientale che viviamo, e come pretesto per immaginare e lavorare insieme seguendo una inter-disciplinarità radicale verso futuri desiderabili. Ci aspettiamo di poter sviluppare un Programma di Ricerca sulla Simbio-poetica in ambito Trans-disciplinare (Symbiopoiesis Research Program in Radical Trans-Disciplinarity) che coinvolgerebbe studiosi e ricercatori provenienti dal MIT (Boston), dallo IUAV (Venezia) e da tutta la rete di partners di progetto.

Abitate negli Stati Uniti pur essendo originari della Lituania, un paese sempre più impegnato nel sostegno ai suoi artisti e creativi, molti dei quali sono attualmente esposti in Biennale. Tra l’altro quest’anno il Leone d’Oro è stato assegnato proprio al Padiglione lituano per il progetto Sun&Sea (Marina). La giuria ha premiato, oltre all’originalità nell’uso dello spazio espositivo, l’impegno del Padiglione nei confronti di Venezia e dei suoi abitanti. In cosa hanno dimostrato coraggio le attività del padiglione e perché? Cosa ne pensate?

Negli ultimi due decenni di transizione dal socialismo al capitalismo, il sostegno finanziario lituano per la cultura e l’arte contemporanea non è stato così forte. Gli artisti e i creativi hanno dovuto dimostrate particolare intenzione nel concepimento dei propri progetti, spingendo perché si concretizzassero perlopiù attraverso il co-finanziamento di aiuti e proventi dall’estero. Come altri paesi precedentemente colonizzati, la Lituania ha avuto la sua prima partecipazione in Biennale solo alla fine degli anni Novanta, e da quel momento, in poco tempo, si è meritata cinque premi – 4 menzioni speciali e un Leone d’Oro –. Siamo felici di essere parte di questa lista dato che il nostro lavoro Villa Lituania (2007), in cui un volo performativo di piccioni connetteva russi, italiani e lituani, ha ricevuto il premio per aver rappresentato “una lucida indagine e una sottile ironia nei confronti della stessa nozione di padiglione e del significato di identità nazionale, catturando il visitatore attraverso una narrativa avvincente”.

Come sottolinea la critica d’arte Angela Vettese osservando una nuova svolta, alcuni dei padiglioni nazionali sono diventati “padiglioni ribelli” – “spazi in cui l’artista può manifestare il proprio punto di vista sulla nazione e sull’intero Stato. Un simile “padiglione critico” non segue il tradizionale modello-celebrativo dell’esposizione, al contrario intraprende sperimentazioni rivoluzionarie contribuendo a un dibattito sull’arte pubblica, sul potere nell’arte e nella società, sul rapporto di un’opera d’arte con il pubblico, sulla critica di qualsiasi monumentalità ampollosa o un discorso sui confini culturali”.
Le partecipazioni lituane alla Biennale hanno iniziato a elaborare una nozione simile a quella del “padiglione critico” con Jonas Mekas e le sue operazioni artistiche intorno all’archivio degli sfollati in esilio (2005) o mettendo in scena le coreografie del Padiglione “Oo” (2013) di Raimundas Malasauskas, che segnava la mutazione e migrazione delle identità in una partecipazione congiunta lituano-cipriota.

The Swamp School

Come già sottolineato, dal momento che la Lituania è stata solo recentemente liberata dalla sua colonizzazione, non ha mai avuto un suo padiglione ai Giardini, il che rende la concettualizzazione del padiglione stesso un compito artistico in cui si incontrano estetica e politica. Se guardiamo agli ultimi anni questi progetti hanno addirittura contribuito all’apertura di nuovi e inaspettati spazi per Venezia – una ludoteca come spazio di gioco per gli archivi (Mekas, Urbonas), l‘uso di un Palazzo dello Sport (nel caso di “Oo” e del Padiglione Baltico).

The Sun&Sea (Marina), vincitore del Leone d‘Oro quest‘anno, apre un nuovo spazio alla fruizione cittadina: un hangar della Marina Militare che è solitamente inaccessibile. Il Padiglione ha dovuto negoziare con le autorità militari per convincerle a partecipare al progetto ma è anche tematicamente sperimentale nel senso in cui rappresenta una produzione concepita coralmente dagli artisti che seguono ciascuno una pratica differente. Il risultato di questa collaborazione è un‘opera collettiva che richiede la partecipazione di più persone, lo sforzo locale e la competenza dei veneziani. Qui il lavoro attinge dall‘economia dell‘esperienza e definisce una produzione in grado di creare posti di lavoro per i veneziani per l‘intera durata della Biennale.

Credit foto in evidenza: The Swamp School. Swamp Radio workshop by Jana Winderen. Photo by Norbert Tukaj

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